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lunedì 30 settembre 2013

Fatti non foste a viver come bruti…

A cura di Danilo Serra


“… ora, l’uomo ha come proprietà qualcosa di molto strano, che non si trova in nessun altro degli enti che stanno sotto la sfera della luna: è la comprensione intellettuale, nella quale non interviene né un senso, né una mano, né un braccio, e che è paragonabile alla comprensione divina, che non si serve di un organo.”

(MAIMONIDE, Guida dei perplessi, PARTE PRIMA, CAPITOLO I, UTET Libreria, traduzione a cura di Mauro Zonta, p. 91)


“…A immagine di Dio Egli lo creò.”[1]
La gente, denunciava a suo tempo il filosofo Mosè Maiominde (1138-1204), pensa che “immagine” (selem in ebraico) designi la composizione materiale, organica. Essa crede che Dio sia corpo, figura, configurazione fisica. Per questo la Bibbia dice “Facciamo l’uomo a Nostra immagine e somiglianza (demut)” [2]. Dio sembrerebbe essere dotato di una faccia e di una mano. Questo è ciò che il pensatore ebraico definisce antropomorfismo puro: conferire al divino caratteristiche e sembianze umane.
L’ “immagine” e la “somiglianza” di cui parla il Testo Sacro, tuttavia, non sono per Maimonide dei riferimenti fisici, che sembrerebbero porre sullo stesso piano corporeo Dio e l’Uomo, ma degli aspetti concettuali tesi a legare (e paragonare) comprensione intellettuale e comprensione divina. L’uomo è Dio quando pensa, fatto a sua immagine e somiglianza. L’Intelletto è ciò che l’Assoluto ha emanato sull’uomo, rendendo il finito capace di distinguere il bene dal male, il vero dal falso. Chi acquisisce sapienza è degno di essere immortale. La vera perfezione, la vera felicità fine a sé stessa, è stata donata dall’Immenso: pensare significa esistere.
L’uomo è soprattutto intelletto. Il “sommo bene” per lui, la sua perfetta felicità, consiste nell’esercizio attivo del pensiero.
Nella sua Etica Nicomachea, Aristotele ha saputo affrontare in modo decisamente sistematico problemi e tematiche fondamentali della riflessione morale di ogni tempo: il bene per l’uomo, la felicità, la libertà, la virtù, la politica, il dovere, solo per fare alcuni esempi.
Dalle pagine aristoteliche (e pro-aristoteliche) emerge con chiarezza la sottile ed eterna connessione tra felicità ed attività contemplativa. La vita teorica, lo studio, l’acquisizione del sapere, lo sviluppo del pensiero. Qui, per Aristotele, va ricercata la fonte della perenne e perentoria felicità umana.
La pensée et le mouvant fu il titolo originale di una raccolta, datata 1938, contenente alcuni saggi decisivi per comprendere la filosofia di Henri Bergson. In essa traspare la visione di un pensiero posto in termini di percezione dilatata: guardare alla materia come capacità di guadagnare (astrarre) forme, concetti, idee. Una materialità viva e non inerte, attraversata incessantemente dall’inafferrabile movimento (Mouvant).
L’uomo è veramente tale nel momento in cui si rapporta positivamente con quelli che sono i suoi pensieri. È solo in quel frangente che si riesce a spezzare la rigidità del firmamento. È solo in quell’attimo, liberi dalla stabilità fisica, che ci si sente trasportare verso mete astratte e superiori. Il movimento (Be-wegung) del Pensare, scorrere naturale di un pensiero umano libero ed incondizionato, si fa così palese, si presenta, si rivolge in attesa di essere ascoltato (accudito).



... non vogliate negar l'esperienza di retro al sol, del mondo sanza gente. Considerate la vostra semenza fatti non foste a viver come bruti ma per seguir virtute e canoscenza.

(DANTE ALIGHIERI, Divina Commedia, Inferno canto XXVI, 116-120)


Queste frasi, indelebili, presenti nel XXVI canto dell'Inferno della Divina Commedia, sono pronunciate da Ulisse. Il personaggio omerico, rivisitato per l’occasione da Dante e condannato nel cerchio dei consiglieri fraudolenti, rivolgendosi ai compagni con i quali s’imbarca, pre-tende di osare l’ignoto e l’incondizionato in quello che Alighieri definisce il folle volo, sconfinando dai limiti umani e violando le celesti leggi divine. Ulisse diviene il simbolo di una folle ragione umana che si è staccata da Dio. Una ragione che, perdendo il contatto con la trascendenza, sganciandosi dai binari della Veritas, ha perduto tutta la sua essenza spirituale. La follia di Ulisse, però, non è una follia antireligiosa, tutt’altro. È quel fol hardment (folle ardire) di cui parlava Brunetto Latini nel suo Trésor. Un volo irragionevole, un osare l’insuperabile, oltre le colonne d’Ercole, aldilà della legge scritta, alla ricerca di qualcosa che non era dato conoscere agli uomini. «Follia, folle ardimento è dunque un traboccare della magnanimità in eccesso, un esporsi a grandi, insuperabili pericoli: qualcosa che nasce da virtù ma non è più virtù perché dalla medietà trapassa in eccesso» (F. Forti).
D’altra parte, separandoci dalla visione teologico-medioevale radicata nella mente di Dante (il suo mondo è il mondo del Medioevo), la potenza illimitata dei versi tende a ribadire e porre l’accento su quello che è il primissimo dovere morale dell’Uomo: muoversi alla conquista, ragionata, della conoscenza e della virtù, del sapere e della disposizione d‘animo volta al bene.
Nel “seguir virtute e canoscenza”, dunque, la dignità dell’Uomo si eleva. L’Uomo diviene Uomo. L’Uomo diviene sé medesimo.




[1] Genesi, 39,6.
[2] Genesi, 1,26.

mercoledì 25 settembre 2013

Che cosa significa «politica»?

A cura di Danilo Serra



Forse in un periodo di «crisi» vale la pena riflettere e soffermarsi sull'origine di alcune pratiche oramai ritenute desuete o, paradossalmente, "abituali" e già in noi. Come poter pensare la «politica» abitando il XXI secolo? Che ruolo attribuire alla «discussione pubblica» abituati, come siamo, ad assistere a spettacoli urlanti e privi di qualsiasi contenuto logico pensante?
Proiettiamoci mentalmente nella Grecia classica. È lì che (il) tutto ha origine; lì la politica prende forma, inizia il suo cammino esistenziale. «Politica» è un termine che rimanda, etimologicamente, al greco polis (πόλις), quest'ultimo tradotto soprattutto con «città-stato». La «città-stato» greca si sviluppa tra il VII e VI secolo a.C. La sua nascita è il risultato di un preciso evento storico: la crisi delle forme tradizionali della sovranità. Con l'affermazione della polis cambia, dunque, il modo di concepire il potere. Esso non è più inteso come «patrimonio» nelle mani delle potenti famiglie aristocratiche ma, idealmente, «potere» assume un significato universale, plurimo, pubblico: il potere si mette in moto in quello che è il centro simbolico della città, l'agora, lo spazio pubblico comunitario. Qui ristagna la grande conquista della Grecia classica, la discussione politica, ciò che in seguito verrà definito, nel linguaggio della "filosofia politica", «potere democratico», potere del confronto. Per fare un esempio concreto, ad Atene (modello classico della polis democratica) la sovranità politica era rappresentata dall'Assemblea, l'ekklesia, aperta a tutti i cittadini maschi e liberi (ateniesi) aventi più di 18 anni. Nelle decisioni politiche (legislative) vale il principio maggioritario: la maggioranza vince. L'amministrazione veniva esercitata dal consiglio dei 500, boule, le cui cariche politiche venivano attribuite per sorteggio. Si trattava, sia chiaro, di una forma embrionale di democrazia diretta e partecipativa, priva, a differenza della modernità politica, di un vero e proprio apparato burocratico statale. 

Tenendo conto di questa storica prospettiva, siamo in grado di rispondere alla domanda "che cosa significa «politica»?" prendendo gradualmente familiarità con i seguenti, vitali, concetti: dibattitopartecipazione, confronto di idee ed argomentazioni. Noi, uomini del XXI secolo, viventi della banalità, non possiamo che sorridere dinanzi allo sviluppo sorgivo della storia, reputando «astratta» quella forma classica e comunitaria di «politica», lontana, troppo lontana, dalle nostre contemporanee categorie e dai nostri predefiniti schemi pensanti. 
Noi, uomini del XXI secolo, rappresentati e gestiti dall'ignoranza, abbiamo imparato a fare a meno della «politica», non provando più interesse per essa, abbandonandoci alle singole energie dell'Io. Il dibattito politico si è impoverito divenendo "cosa silenziosa". Il nichilismo pervade le nostre membra. Del resto, il termine «nichilismo» ha dentro di sé la radice latina nihil traducibile con "niente", "nulla". E «politica» è per noi "niente", il nulla inteso come il non essere più presente. Vaghiamo come nomadi solitari senza una patria, senza un terreno, privati di uno spazio comune, lo «spazio pubblico della politica».

martedì 24 settembre 2013

E adesso è fin troppo «razionale»

A cura di Danilo Serra


Il calcio è vita, realtà, evento (Ereignis) segnato essenzialmente dalla dimensione della finitezza e della storicitàÈ il gioco dell'anima bella, l' «esistere» per antonomasia, l' «ambiente» (Umwelt) di chi sa connettere ed ancorare «grazia» «dignità». Pur essendo esonero (in quanto «sospensione») dalla realtà empirica e quotidiana, il calcio ha la peculiare capacità di porre in evidenza un «essere vincolati» a delle norme intersoggettive tendenti a definire e regolare gioco e giocatore. La razionalità legislativa, propria del gioco del calcio, conduce ad un «so-stare su un terreno comune», sottoponendo i giocatori a regole perentorie da incanalare per vivere la «vita» del calcio. 
Ma questo calcio, oramai fin troppo "dogmatico", succube dell'imperante «mondo iper-industrializzato», ci ("a noi") ha inevitabilmente condotti verso uno status di apatia, fastidiosamente respirabile, difficile da accettare e smantellare. 
Al calcio d'oggi mancano fantasia ed irrazionalità: il calcio moderno è privo di ebbrezza. Dov'è finita la follia? Dove la magia? Dove la tragedia? Dove Eschilo? Dove Sofocle? 
Al Diavolo le razionali logiche commerciali a-sentimentali. Al calcio manca la sua reale essenza dionisiaca, inghiottita ed obliata dallo scorrere calcolante dell'era "automatica" e "tecnologica".

martedì 21 maggio 2013

Sulla Certezza. Verso Dio.

A cura di Danilo Serra

Danilo Serra (in foto)
Dio esisteChi è DioCome dimostrar-LoPerché credere in Lui?
Punti interrogativi come questi rischiano di offuscare le menti di ogni singolo individuo e trasportarci verso mete troppo poco concrete e troppo evidentemente astratte.
E’ soltanto proiezione dell’uomo (Feuerbach), oppio del popolo (Marx), illusione di gente rimasta allo stadio infantile (Freud)? Cosa è Dio?
Oggi più che mai avvertiamo la necessità di mettere tutto tra parentesi e ri-cominciare il nostro percorso esistenziale, ex novo, confidando nella ricerca (vincente o meno) di certezze e fondamenti definitivi. Cerchiamo insomma qualcosa di incrollabile (permanente) da opporre con chiarezza a mutevoli granelli di sabbia. Qualcosa che poggi su un terreno stabile e sicuro.
Ecco dunque il consumarsi del cammino audace del dubbio metodico che, par example, in Cartesio, conduce in primis all’ Ego Cogito ergo Sum giungendo attraverso la formulazione di prove razionali dell’esistenza di Dio, all’affermazione perentoria del fondamento ontologico di tutte le cose, del suo esserci, la “causa intellegibile” del Reale; Dio.
Ma chi è allora questo Dio? Non è forse lo stesso Essere massacrato e stuprato da Feuerbach al fine di ri-attivare l’energia materiale dell’Uomo? Non è forse il Dio che è morto - Gott ist to! – così come trascriveva ‘follemente' Nietzsche nella sua ‘Die fröhliche Wissenschaft’? Ma questo Dio, ancora, il Dio dei filosofi, cosa ha a che fare con il Dio della fede cristiana?
I destini della filosofia e della matematica si toccano nel momento in cui si fa presente l’interesse verso una certezza incondizionata ed assoluta, nel campo della vita e del sapere. Sondare il terreno del divino è divenuto possibile.
E se, per dirla con Aristotele, è la meraviglia che spinge l’Uomo a conoscere, nella ricerca di un principio primo c’è in gioco la forza e la pretesa di un pensiero dilatato e irrefrenabile, orgoglioso della sua finita ambizione.
Vista da questa prospettiva, il Dio cercato dai filosofi, il Dio dei filosofi, è espresso nei termini di “fondamento”, “causa”, “origine”. E’ un Dio (lo si può chiamare convenzionalmente anche “X” o “Φ”) “principio”, “primo termine a partire dal quale una cosa o è, o è generata, o è conosciuta” (Aristotele, Metafisica).
Così, da un punto di vista squisitamente razionale, le prove riguardanti l’esistenza di Dio hanno una storia imponente: su di esse si sono affrancate le più grandi menti dell’umanità. Tra queste il teologo contemporaneo Hans Küng, icona di una Chiesa non clericale ed autore di un long seller avente come titolo una domanda a dir poco banale: “Dio esiste?
Nella ricerca di un principio fondante, bisogna essere consapevoli della separabilità tra spazio della ragione e spazio della credenza. Provare l’esistenza di Dio non significa credere in Dio. Il Dio “causa prima”, un Essere che causa tutto ma non è a sua volta causato in quanto “origine”, non è il Dio [dell']Amore (agápē o caritas). Non è il Dio del “Pater Noster” proposto dalla fede cristiana. Solo attraverso la ragione è possibile pensare e di-mostrare un punto iniziale, una “ragione” che regge, una spiegazione ultima cui la ragione stessa tende per sua natura.  Chiamarlo Dio, ripeto, non ha poi molta importanza.
E la fede? Anch'essa di per sé ricerca un appoggiarsi, un af-fidarsi. Ma ciò che qui si fa palese ed interessa è distinguere un “Essere” che la ragione, l’Uomo, teoricamente ri-cerca e un Dio fedelmente cristiano, il Dio Trino della preghiera pratica, Padre, Figlio e Spirito Santo.
D’altronde (riprendendo Agostino di Ippona) un Dio, quello della religione, dimostrabile che razza di Dio è?

domenica 10 marzo 2013

Gianni Vattimo: Addio alla Verità. Oltre la Metafisica oggettivante.

A cura di Danilo Serra

La speculazione filosofica dell’italiano Gianni Vattimo prende spunto dalla personale interpretazione ermeneutica condotta minuziosamente sui testi di due pedine fondamentali e fondanti della storia della filosofia contemporanea, Nietzsche e Martin Heidegger, due autori aventi il merito di aver paradossalmente ricondotto il suo vissuto verso un Cristianesimo ritrovato, un Cristianesimo non più religioso ed “istituzionalizzante”.
Nietzsche è l’autore che ne ‘La gaia scienza’ (Die fröhliche Wissenschaft) non ha avuto alcun timore e tremore nel fare pronunciare ad un interessante personaggio la morte di Dio, “Dio è morto!” [Gott ist tot!].
Heidegger, soprattutto il “secondo” Heidegger, quello della “svolta”, la Kehre come si usa dire, ha combattuto filosoficamente contro un pensiero metafisico onto-teologico, colpevole di aver miseramente taciuto ed obliato l’Essere, ciò che in termini heideggeriani viene a configurarsi come il più pre-occupante (ein Bedenkliches), ciò che ci (‘uns’a noi) pre-occupa e ci coinvolge prima di ogni altra cosa.
Nietzsche e Heidegger sono dunque in Vattimo protagonisti di una battaglia dialettica che impreca ed invoca l’addio alla Verità (non a caso ‘Addio alla Verità’ è anche il titolo di una delle opere recenti di Gianni Vattimo). In loro, il dibattito filosofico ha almeno un punto di convergenza: non si da alcuna fondazione ultima e normativa. È questo il senso di quella che Vattimo definisce l’epoca del pensiero debole, epoca nella quale la Filosofia diviene s-fondamento, “fare vedere che non c’è nulla di veramente fondato”. Tutto è accadimentoorizzonte di sensocaducità storico-temporale. La debolezza del pensiero [debole] consiste nel suo non essere più in grado di rispondere fermamente alla domanda di leibnieziana memoria: perché [esiste] Qualcosa anziché Niente? Di cosa possiamo affermare con evidenza di essere certi?
“Di tutto ciò di cui non si può parlare si deve tacere”Con questa ambigua proposizione Wittgenstein de-terminava il suo Tractatus Logico-Philosophicus, l’unico testo da lui pubblicato in vita.
L’addio alla Verità si compie in maniera silenziosa. Dinanzi alle grandi meditazioni metafisiche il velato protagonista è solo il silenzio. Possiamo ancora parlare di Verità nell’epoca dell’incertezza e dell’abbandono della ricerca de-finitiva di/in un fundamentum inconcussum?
Karl Popper, filosofo ed epistemologo austriaco, ha mostrato a tutti come sia piuttosto illusorio cercare fondamenti anche nella scienza.
Abbiamo creduto che tutti i cigni fossero bianchi finché non abbiamo visto con i nostri occhi i cigni neri d’Australia. Non è possibile dimostrare vera, assolutamente vera, qualsiasi teoria; mentre è logicamente possibile smentire, a suon di fatti contrari, una teoria. Non possiamo verificare (farla vera) una teoria, ma ci è possibile falsi-ficarla (farla falsa). Insomma, la dimensione del fallibilismo e dell’errore (produttivo) abitano il piano scientifico, ciò che un tempo, nei termini di pensiero positivo, veniva universalmente concepito con la immota nomea di ‘campo di conoscenze assolute e sempre vere’.
L’unico punto pressoché certo nel naufragio è il punto interrogativo”, sottolinea lo scrittore e poeta libanese Salah Stétié. Siamo certi di vivere nell’incertezza, nella debolezza, nella non-assolutezza, nella limitatezza. E questa è stata la più grande conquista della prima vera rivoluzione scientifica del secolo scorso, revolutio che ha smembrato, tra le altre cose, la validità suprema del principio deterministico, rivelando, ad esempio, i limiti degli assiomi dell’identità della logica classica ed i limiti propri della conoscenza umana.
Riagganciandoci al tema esposto in principio, possiamo in Vattimo parlare di verità solamente nei termini di ‘senso’ [orizzonte di senso], del senso che un dato ha entro un pro-getto; un senso (a noi e per noi) che di-viene un ‘porre’, un ‘determinare’, ‘ciò che noi mettiamo alle cose’. Lo stare all’interno di un ambito in-stabile (nulla si dà e si concede definitivamente) in cui l’Essere lascia essere, salvaguarda e tutela l’etica della libertà (o etica della debolezza), secondo la quale io sono libero in quanto libero di im-porre un senso. Se c’è una realtà oggettiva, Vera, assoluta, io non sono libero, poiché non sono libero di esibire le mie argomentazioni e di pro-gettarmi esserCi attivo e pensante. L’addio alla Verità vuole dunque essere l’addio ad uno sguardo unilaterale, l’addio alla repressioneLa verità è sempre accompagnata dalla violenza. Ad esempio, evidenzia Vattimo, il mondo cattolico, affermando le verità naturali della Famiglia (unione ‘naturale’ di uomo e donna) attua una lotta repressiva nei confronti dei diritti omosessuali. Il richiamarsi ad una Verità fissa, stabile, determinata, porta così alla repressione/violenza.
L’addio alla verità implica l’impossibilità di pensare l’Essere metafisicamente inteso: fissità, fermezza, fondamento, Subiectum (hypokèimenon), “ciò che sta sotto”, “ciò che sussiste di per sé”. Nell’epoca della post-modernità, epoca della post-metafisica, l’Essere può essere pensato solo e semplicemente come inviotrasmissione, destino (ciò che destina, che ‘fa essere’), evento, ‘Ereignis’, così come ha insegnato l’intera tradizione fenomenologica husserliana.
«Un Dio “diverso” dall’essere metafisico non può più essere il Dio della verità definitiva e assoluta che non ammette alcuna diversità dottrinale. Per questo lo si può chiamare un Dio “relativista”. Un “Dio debole”, se si vuole, che non svela la nostra debolezza per affermarsi a propria volta come luminoso, onnipotente sovrano, tremendo, secondo i tratti propri del personaggio (minaccioso e rassicurante) della religiosità naturale-metafisica».
Così “parlò” Vattimo in una delle pagine più profonde ed incisive del suo ‘Addio alla Verità’.
Il Dio della post-metafisica è il Dio del Libro, il Dio del Vangelo, il Dio della Non-Religione. Il Cristianesimo non religioso è il Cristianesimo dell’intimità, della singolarità, dell’interpretazione [orizzonte di senso], del silenzio, in antitesi al Dotto Cristianesimo istituzionalizzante. Richiamandosi alle dimensioni interiori e soggettive, ‘In interiore homine habitat Veritas’, il Logos cristiano distrugge ogni Assoluto Terrestre ed ogni Metafisica oggettivante e tecnicizzante.
L’Incarnazione, il senso stesso del Cristianesimo, è l’Idea di un Dio che rinuncia alla sua forza suprema, al suo carattere imperativo ed imperante, facendosi debole tra i deboli, umile tra gli umili. Il Dio relativista e debole è il Dio che rinuncia alla sua Onnipotenza. È un Dio che s’incarna, che si ossifica, che si materializza, che si svuota. Questo è il destino comune (Ge-schick) della metafisica, l’Oltre della metafisica stessa, la Kenosis (vacuità) in quanto svuotamento, Evento storicoessenza del Cristianesimo Anti-Metafisico.

venerdì 8 marzo 2013

La Guida dei perplessi: un cammino ebraico verso la Chiarezza

A cura di Danilo Serra.


filosofia ebraica
La Guida dei perplessi: un cammino ebraico verso la Chiarezza – A cura di Danilo Serra.
La Guida dei perplessi (in ebraico: מורה נבוכים ‎, traslitt. in ebraico: Moreh Nevukhim), considerata tra le opere più incisive e fortunate della Storia della filosofia ebraica, immortale sigillo maturo progettato dall’ingegno polivalente di Mosè Maimonide (1138-1204), non può certamente definirsi trattato sistematico filosofico.
Il suo essere monco di sistematicità è, anzi, un aspetto peculiare da non tralasciare, capace di rendere il testo armoniosamente originale, conferendovi una enigmatica fluidità all’apparenza non semplice da percepire.
«Sappi che in questa mia opera non è mia intenzione comporre un trattato di fisica, o sintetizzare alcuni concetti della metafisica (…). Il fine di quest’opera è solo (…) quello di spiegare le difficoltà della Legge [la Torah ebraica, i cui fondamenti si trovano nel Pentateuco] e di mostrare i veri significati dei suoi segreti, che sono superiori alle menti del volgo». (Mosè Maimonide, Guida dei perplessi, Introduzione).
Scartato il termine “sistematico”, la Guida dei perplessi assume i nobili contorni del “commento” (commento ad Aristotele, commento ‘filosofico’ al Testo biblico…), testo ascrivibile al genere dell’esegesi biblica. Non è un caso se l’imponente scritto medievale, redatto in principio in lingua araba probabilmente nel penultimo decennio del XII secolo (Maimonide visse parte della sua esistenza nella Spagna islamica), inglobi  all’incirca 1400 passi biblici esibiti rigorosamente in ebraico. Filosofia e Teologia balenano lungo lo stesso orizzonte ricomprendente. Non c’è assoluta competitività tra ragione e fede; l’una è nell’altra, l’una è nullità senza l’altra.
L’obiettivo esplicitamente dichiarato dall’autore è quello di servirsi dell’ancella filosofia al fine di cogliere e spiegare razionalmente, attraverso argomentazioni logiche, passi del Testo biblico e non solo (la Guida include anche numerosi riferimenti a testi [la Mishnah, il Talmud, i Midrashim] o vocaboli ebraici e aramaici). La filosofia, che in Maimonide si identifica sostanzialmente con la filosofia di Aristotele – nel testo è costantemente presente il riferimento ad Aristotele [il Principe dei Filosofi] come era tramandato dalle scuole arabe, sulla base dei commenti di Averroè ed Avicenna – si [im]pone in termini strumentali, demiurgici, cosmogonici. È una sofia, ciò che non può essere diversamente da ciò che è[1], elevatasi a strumento ermeneutico, chiamata a compiere decisamente la non facile missione di ‘dis-velamento’ (A-létheia), di ‘apertura’, di ‘superamento’ delle difficoltà vigenti ed abitanti la civitas della Legge/Torah, mostrandone sapientemente i verifissifondanti significati. Il filosofo diviene così il Traduttore che traduce le immagini del Testo in astrazioni, il Demiurgo capace di modellare il sensibile del Biblico nell’intelligibile del Concetto, il Pendolo che oscilla continuamente tra la umana natura e la divina, tra il più chiaro e il più oscuro, tra il fisico e il meta-fisico. Dinanzi alle difficoltà (del Testo biblico) la filosofia non può arrestarsi. Il filosofo, aristotelicamente inteso, procede nella sua opera di disintrecciamento del nodo. Gli stessi sapienti, precisa Aristotele nel libro A della Metafisica, si sono misurati con le difficoltà e hanno cominciato a filosofare a causa della meraviglia[2], quest’ultima testimone di una dimensione in cui riconosco di non essere a conoscenza (il “so di non sapere” socratico). Tuttavia, nonostante questo blocco (io non conosco e sono meravigliato) derivato dall’aporia, i sofoi sentirono il bisogno (“qualcosa” li chiamava, bisogna cogliere ed esaminare le difficoltà) e l’esigenza di procedere[3].
Il blocco non è annientante, non è silente. Il blocco non mi blocca. Esso diviene salto, slancio dinamico, vis indissolubile. Filosofare è s[forza]rsi, giocare e mettersi in gioco affrontando con veemenza il próblēma (πρόβλημα), la ‘sporgenza’, ‘ciò che sporge’, ‘ciò che mi urta’ e, per tale ragione, mi sommuove, mi eccita e mi libera rendendomi attivo e pensante.
Vincere la perplessità; ammutolire l’incertezza. Verso la chiarezza.
È forte l’esigenza in Maimonide di mettere per iscritto un’opera che possieda il carattere di ‘guida’, ‘soccorso’, ‘invito’, ‘pro-vocazione’. Una provocazione che l’intellettuale ebreo indirizza non all’intera massa popolare, ma ad una relativa e minore parte. La Guida dei perplessi, d’altronde, non è un testo democratico; e non vuole neppure esserlo. L’autore si rivolge essenzialmente a coloro i quali ha impresso, fin dal titolo iniziale, la statica nomea di“perplessi”[4]. Questi, nonostante abbiano studiato la filosofia e le altre scienze (tra le quali la matematica, la fisica, la logica…) e conoscano i testi fondanti della tradizione ebraica, si ritrovano incapaci di decodificare le metafore oscure e i termini equivoci (ovvero aventi più significati) contenuti nei libri profetici[5]. Rimane ingabbiato nella perplessità sia chi segue solo il suo intelletto, sia chi si affida semplicemente alla sua fede. L’unità inscindibile di ragione e fede permette all’essere umano di vincere questa vulnerabile frattura e di venire ripetutamente illuminato dal lampo in una notte tenebrosissima, “al punto che è come se fosse sempre alla luce, sicchè la notte per lui diventa come il giorno – e questo è il grado più grande dei profeti, del quale si dice nella Bibbia [4,I]: ‘tu, sta’ qui presso di Me’ e si dice anche: ‘La pelle del suo volto era raggiante, ecc.’“.
«Ma il fine di quest’opera non è di far comprendere tutte queste cose al volgo,  nemmeno ai principianti, e neppure di insegnarle a chi non studia altro che la scienza della Legge, vale a dire il diritto. Infatti il fine di quest’opera e di tutte le opere ad essa simili è la scienza della Legge nella sua realtà, o piuttosto, il fine di quest’opera è di dare un avvertimento ad ogni uomo religioso che si sia umiliato e abbia conseguito una credenza certa nella nostra Legge, sia perfetto nella pratica religiosa e nella morale, e abbia studiato le scienze filosofiche e conosca i loro contenuti». (Mosè Maimonide,  Guida dei perplessi, Introduzione).
La Guida dei perplessi, opera comprensibile solo da chi possiede determinati strumenti necessari (i perplessi), è un commento al Testo biblico e ai libri profetici, un testo filosofico, esegesi biblica. Al centro dell’attenzione è collocata la Torah, il Libro Sacro [l’unico] il Testo-Unità nel quale convergono e si riconoscono miriadi di com-unità ebraiche sparse per l’intero globo. Maimonide, invitando allo studio minuzioso e approfondito della Scrittura, definisce il ‘divino’ Testo biblico possessore di un senso rivelato, letterale, immediatamente visibile a tutti, e di un senso oscuro, più nascosto e complesso, che coincide con quello propriamente “filosofico”. Entrambi sono sensi preziosi o, per riprendere una suggestiva metafora architettata dal pensatore ebreo nella sua introduzione alla parte prima, entrambi sono metalli preziosi, anche se l’oro (il senso esoterico/filosofico) è più prezioso dell’argento (il senso letterale).


 Note.
[1«Tutti ammettiamo che ciò di cui abbiamo scienza non può essere diversamente da quello che è: ciò che invece può essere anche diverso, quando è fuori dal campo della nostra osservazione, non si sa più se esiste o no». (Aristotele, Etica Nicomachea, Libro VI 1139b 20).
[2] «Infatti gli uomini hanno cominciato a filosofare, ora come in origine, a causa della meraviglia: mentre da principio restavano meravigliati di fronte alle difficoltà più semplici, in seguito, progredendo a poco a poco, giunsero a porsi problemi sempre maggiori: per esempio i problemi riguardanti i fenomeni della luna e quelli del sole e degli astri, o i problemi riguardanti la generazione dell’intero universo». (Aristotele, Metafisica, Libro A 982b 10).
[3«Tutti gli uomini per natura tendono [orexis= tensione, torsione, intenzione, desiderio] al sapere». (Aristotele, Metafisica, Libro A 980a).
[4«Quanto alla presente opera, come ho detto, io mi rivolgo con essa a chi ha praticato la filosofia e conosce veramente le scienze, ma crede anche nella Legge ed è perplesso di fronte ai suoi significati, nei quali i termini ambigui e le metafore creano confusione». (Maimonide, Introduzione alla parte prima, Guida dei perplessi).
[5] Con "libri profetici" Maimonide intende tutti i libri della Bibbia ebraica.

domenica 10 febbraio 2013

La decadenza del calcio. I soldi, il male.

A cura di Danilo Serra

Verum est, dicevano i latini. “Pecunia non olet”, il denaro non puzza. Era questo uno dei motti vincenti dell’imperatore Vespasiano che, vox populi, usava ripetere spesso al giovine figlio Tito.

“Lodati siano i soldi, i beneamati soldi”, cantava invece Betty Curtis nel lontano 1961. “Chi ha tanti soldi vive come un pascià”. Perdonatemi la poca eleganza e la banalità del mio  immediato scrivere, ma i soldi, i troppi soldi, hanno davvero rovinato questo pianeta, il migliore dei mondi possibili, per dirla alla Leibniz. Ma, dopo tutto, una loro suprema importanza devono pur averla. Stai a vedere che l’errore sta nel considerare il denaro un fine e non un mezzo per raggiungere la felicità? 
Aristotele imperat et docet.

Il calcio, questo calcio malato e impossessato, non ha più nulla da spartire con la Poesia, la pura e seducente Poesia.
Come possiamo cercare di istaurare un collegamento ideale tra due sfere così evidentemente separate? Come possiamo minimamente pensare a riabilitare questo stupido calcio che, proprio come la politica, ha perso tutto ciò che non doveva permettersi di perdere. Stiamo assistendo ad un decadimento logorante che ci indirizzerà lentamente verso l’umiliante tugurio della vergogna e dello squallore. Lì dove l’Anima sarà costretta a bruciare. Lì dove l’Intelletto non riuscirà più a percepire.

Cosa è rimasto di ciò che un tempo veniva elogiato come lo sport più amato e praticato al mondo? Cosa è rimasto se non fumo e cenere, lacrime e sangue. Dove si è nascosta la Magia? In quale austero manicomio è stata crocifissa quell’irrazionale Follia che paradossalmente dava un senso unico e glorioso ad uno sport all’apparenza banale, semplice, silente. Tutto morto, passato, irripetibile. Tutto immerso e abbandonato. Il Dionisiaco, citando l’inarrestabile Nietzsche, è stato violentemente stuprato e massacrato dall’Apollineo, il quale sta già rigando dritto verso un dominio aberrante ed incondizionato.
I soldi insomma. Anzi, i troppi soldi. Ecco il cancro del calcio.
“Homo sine pecunia imago mortis”, l’uomo senza denaro è immagine della morte; ma, l’uomo che approfitta, l’uomo che devasta la Magia, la Follia, il Dionisiaco, l’Anima, lo Spirito, è degno di essere sconfinato e cancellato dalla più perfida e mitologica creatura.
“I soldi sono come il letame. Se lo spargete in giro fa bene. Se ne fate un mucchio in un posto solo, puzza”. Onore a Francis Bacon.

Danilo Serra
« È assurdo avere una regola severa e fissa a proposito di ciò che uno deve o non deve leggere. Più della metà della cultura moderna dipende da ciò che uno non può leggere ». [Oscar Wilde]