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lunedì 30 settembre 2013

Fatti non foste a viver come bruti…

A cura di Danilo Serra


“… ora, l’uomo ha come proprietà qualcosa di molto strano, che non si trova in nessun altro degli enti che stanno sotto la sfera della luna: è la comprensione intellettuale, nella quale non interviene né un senso, né una mano, né un braccio, e che è paragonabile alla comprensione divina, che non si serve di un organo.”

(MAIMONIDE, Guida dei perplessi, PARTE PRIMA, CAPITOLO I, UTET Libreria, traduzione a cura di Mauro Zonta, p. 91)


“…A immagine di Dio Egli lo creò.”[1]
La gente, denunciava a suo tempo il filosofo Mosè Maiominde (1138-1204), pensa che “immagine” (selem in ebraico) designi la composizione materiale, organica. Essa crede che Dio sia corpo, figura, configurazione fisica. Per questo la Bibbia dice “Facciamo l’uomo a Nostra immagine e somiglianza (demut)” [2]. Dio sembrerebbe essere dotato di una faccia e di una mano. Questo è ciò che il pensatore ebraico definisce antropomorfismo puro: conferire al divino caratteristiche e sembianze umane.
L’ “immagine” e la “somiglianza” di cui parla il Testo Sacro, tuttavia, non sono per Maimonide dei riferimenti fisici, che sembrerebbero porre sullo stesso piano corporeo Dio e l’Uomo, ma degli aspetti concettuali tesi a legare (e paragonare) comprensione intellettuale e comprensione divina. L’uomo è Dio quando pensa, fatto a sua immagine e somiglianza. L’Intelletto è ciò che l’Assoluto ha emanato sull’uomo, rendendo il finito capace di distinguere il bene dal male, il vero dal falso. Chi acquisisce sapienza è degno di essere immortale. La vera perfezione, la vera felicità fine a sé stessa, è stata donata dall’Immenso: pensare significa esistere.
L’uomo è soprattutto intelletto. Il “sommo bene” per lui, la sua perfetta felicità, consiste nell’esercizio attivo del pensiero.
Nella sua Etica Nicomachea, Aristotele ha saputo affrontare in modo decisamente sistematico problemi e tematiche fondamentali della riflessione morale di ogni tempo: il bene per l’uomo, la felicità, la libertà, la virtù, la politica, il dovere, solo per fare alcuni esempi.
Dalle pagine aristoteliche (e pro-aristoteliche) emerge con chiarezza la sottile ed eterna connessione tra felicità ed attività contemplativa. La vita teorica, lo studio, l’acquisizione del sapere, lo sviluppo del pensiero. Qui, per Aristotele, va ricercata la fonte della perenne e perentoria felicità umana.
La pensée et le mouvant fu il titolo originale di una raccolta, datata 1938, contenente alcuni saggi decisivi per comprendere la filosofia di Henri Bergson. In essa traspare la visione di un pensiero posto in termini di percezione dilatata: guardare alla materia come capacità di guadagnare (astrarre) forme, concetti, idee. Una materialità viva e non inerte, attraversata incessantemente dall’inafferrabile movimento (Mouvant).
L’uomo è veramente tale nel momento in cui si rapporta positivamente con quelli che sono i suoi pensieri. È solo in quel frangente che si riesce a spezzare la rigidità del firmamento. È solo in quell’attimo, liberi dalla stabilità fisica, che ci si sente trasportare verso mete astratte e superiori. Il movimento (Be-wegung) del Pensare, scorrere naturale di un pensiero umano libero ed incondizionato, si fa così palese, si presenta, si rivolge in attesa di essere ascoltato (accudito).



... non vogliate negar l'esperienza di retro al sol, del mondo sanza gente. Considerate la vostra semenza fatti non foste a viver come bruti ma per seguir virtute e canoscenza.

(DANTE ALIGHIERI, Divina Commedia, Inferno canto XXVI, 116-120)


Queste frasi, indelebili, presenti nel XXVI canto dell'Inferno della Divina Commedia, sono pronunciate da Ulisse. Il personaggio omerico, rivisitato per l’occasione da Dante e condannato nel cerchio dei consiglieri fraudolenti, rivolgendosi ai compagni con i quali s’imbarca, pre-tende di osare l’ignoto e l’incondizionato in quello che Alighieri definisce il folle volo, sconfinando dai limiti umani e violando le celesti leggi divine. Ulisse diviene il simbolo di una folle ragione umana che si è staccata da Dio. Una ragione che, perdendo il contatto con la trascendenza, sganciandosi dai binari della Veritas, ha perduto tutta la sua essenza spirituale. La follia di Ulisse, però, non è una follia antireligiosa, tutt’altro. È quel fol hardment (folle ardire) di cui parlava Brunetto Latini nel suo Trésor. Un volo irragionevole, un osare l’insuperabile, oltre le colonne d’Ercole, aldilà della legge scritta, alla ricerca di qualcosa che non era dato conoscere agli uomini. «Follia, folle ardimento è dunque un traboccare della magnanimità in eccesso, un esporsi a grandi, insuperabili pericoli: qualcosa che nasce da virtù ma non è più virtù perché dalla medietà trapassa in eccesso» (F. Forti).
D’altra parte, separandoci dalla visione teologico-medioevale radicata nella mente di Dante (il suo mondo è il mondo del Medioevo), la potenza illimitata dei versi tende a ribadire e porre l’accento su quello che è il primissimo dovere morale dell’Uomo: muoversi alla conquista, ragionata, della conoscenza e della virtù, del sapere e della disposizione d‘animo volta al bene.
Nel “seguir virtute e canoscenza”, dunque, la dignità dell’Uomo si eleva. L’Uomo diviene Uomo. L’Uomo diviene sé medesimo.




[1] Genesi, 39,6.
[2] Genesi, 1,26.

mercoledì 25 settembre 2013

Che cosa significa «politica»?

A cura di Danilo Serra



Forse in un periodo di «crisi» vale la pena riflettere e soffermarsi sull'origine di alcune pratiche oramai ritenute desuete o, paradossalmente, "abituali" e già in noi. Come poter pensare la «politica» abitando il XXI secolo? Che ruolo attribuire alla «discussione pubblica» abituati, come siamo, ad assistere a spettacoli urlanti e privi di qualsiasi contenuto logico pensante?
Proiettiamoci mentalmente nella Grecia classica. È lì che (il) tutto ha origine; lì la politica prende forma, inizia il suo cammino esistenziale. «Politica» è un termine che rimanda, etimologicamente, al greco polis (πόλις), quest'ultimo tradotto soprattutto con «città-stato». La «città-stato» greca si sviluppa tra il VII e VI secolo a.C. La sua nascita è il risultato di un preciso evento storico: la crisi delle forme tradizionali della sovranità. Con l'affermazione della polis cambia, dunque, il modo di concepire il potere. Esso non è più inteso come «patrimonio» nelle mani delle potenti famiglie aristocratiche ma, idealmente, «potere» assume un significato universale, plurimo, pubblico: il potere si mette in moto in quello che è il centro simbolico della città, l'agora, lo spazio pubblico comunitario. Qui ristagna la grande conquista della Grecia classica, la discussione politica, ciò che in seguito verrà definito, nel linguaggio della "filosofia politica", «potere democratico», potere del confronto. Per fare un esempio concreto, ad Atene (modello classico della polis democratica) la sovranità politica era rappresentata dall'Assemblea, l'ekklesia, aperta a tutti i cittadini maschi e liberi (ateniesi) aventi più di 18 anni. Nelle decisioni politiche (legislative) vale il principio maggioritario: la maggioranza vince. L'amministrazione veniva esercitata dal consiglio dei 500, boule, le cui cariche politiche venivano attribuite per sorteggio. Si trattava, sia chiaro, di una forma embrionale di democrazia diretta e partecipativa, priva, a differenza della modernità politica, di un vero e proprio apparato burocratico statale. 

Tenendo conto di questa storica prospettiva, siamo in grado di rispondere alla domanda "che cosa significa «politica»?" prendendo gradualmente familiarità con i seguenti, vitali, concetti: dibattitopartecipazione, confronto di idee ed argomentazioni. Noi, uomini del XXI secolo, viventi della banalità, non possiamo che sorridere dinanzi allo sviluppo sorgivo della storia, reputando «astratta» quella forma classica e comunitaria di «politica», lontana, troppo lontana, dalle nostre contemporanee categorie e dai nostri predefiniti schemi pensanti. 
Noi, uomini del XXI secolo, rappresentati e gestiti dall'ignoranza, abbiamo imparato a fare a meno della «politica», non provando più interesse per essa, abbandonandoci alle singole energie dell'Io. Il dibattito politico si è impoverito divenendo "cosa silenziosa". Il nichilismo pervade le nostre membra. Del resto, il termine «nichilismo» ha dentro di sé la radice latina nihil traducibile con "niente", "nulla". E «politica» è per noi "niente", il nulla inteso come il non essere più presente. Vaghiamo come nomadi solitari senza una patria, senza un terreno, privati di uno spazio comune, lo «spazio pubblico della politica».

martedì 24 settembre 2013

E adesso è fin troppo «razionale»

A cura di Danilo Serra


Il calcio è vita, realtà, evento (Ereignis) segnato essenzialmente dalla dimensione della finitezza e della storicitàÈ il gioco dell'anima bella, l' «esistere» per antonomasia, l' «ambiente» (Umwelt) di chi sa connettere ed ancorare «grazia» «dignità». Pur essendo esonero (in quanto «sospensione») dalla realtà empirica e quotidiana, il calcio ha la peculiare capacità di porre in evidenza un «essere vincolati» a delle norme intersoggettive tendenti a definire e regolare gioco e giocatore. La razionalità legislativa, propria del gioco del calcio, conduce ad un «so-stare su un terreno comune», sottoponendo i giocatori a regole perentorie da incanalare per vivere la «vita» del calcio. 
Ma questo calcio, oramai fin troppo "dogmatico", succube dell'imperante «mondo iper-industrializzato», ci ("a noi") ha inevitabilmente condotti verso uno status di apatia, fastidiosamente respirabile, difficile da accettare e smantellare. 
Al calcio d'oggi mancano fantasia ed irrazionalità: il calcio moderno è privo di ebbrezza. Dov'è finita la follia? Dove la magia? Dove la tragedia? Dove Eschilo? Dove Sofocle? 
Al Diavolo le razionali logiche commerciali a-sentimentali. Al calcio manca la sua reale essenza dionisiaca, inghiottita ed obliata dallo scorrere calcolante dell'era "automatica" e "tecnologica".
« È assurdo avere una regola severa e fissa a proposito di ciò che uno deve o non deve leggere. Più della metà della cultura moderna dipende da ciò che uno non può leggere ». [Oscar Wilde]